“Più donne che uomini in sanità” non è sinonimo di parità di genere. Purtroppo, la realtà che i dati ci presentano non è come vorremmo e l’8 marzo, in cui si celebra la “Festa della Donna”, parlare di diritti e dignità in ambito lavorativo è doveroso.  

Se i camici bianchi non sono più donne che uomini per un debole 5% in diminuzione, se le infermiere sono il 77% contro il 23% degli infermieri, se le matricole al femminile superano i maschi del 6%, se “la medicina è sempre più donna” e l’onda rosa avanza, non va taciuto però che l’Italia non rientra tra i primi 10 Paesi che spingono le donne alle professioni mediche e che del 63,5% di donne in sanità (su un totale di 12.822.857 persone che lavorano nel Ssn) sono pochissime a ricoprire incarichi dirigenziali.   

Enormi passi in avanti compiuti, ma ancora lontani dall’equità

Dalla prima donna medico in Italia, Ernestina Puritz-Manasse laureatasi all’Università di Zurigo prima e a Pisa poi ed infine presso l’istituto di Studi Superiori di Firenze dove completò gli studi nel luglio 1877, enormi passi avanti sono stati compiuti. Tuttavia, il gender pay gap e l’evidente mancanza di equità rispetto alle professioni sanitarie incalza ancora oggi.  

I numeri secondo il report FNOMCeO 

Secondo gli ultimi dati della FNOMCeO: gli uomini, tra i medici, sono ancora in vantaggio, ma si tratta di una maggioranza sempre più risicata pari al 55% del totale, e precisamente 218.226 contro 178.062 colleghe donne. Le donne medico, ormai parte preponderante della forza lavoro nell’ambito del Servizio Sanitario Nazionale, considerando i medici con meno di 65 anni, sono il 54%. Con il calare dell’età, si tratta di un’ascesa continua: le dottoresse sono il 57% dei medici sotto i 60 anni, il 60% tra gli under 50. Nella fascia d’età dai 40 ai 44 anni, in particolare, quasi 2 medici su 3, e precisamente il 64%, sono donne. Tra i professionisti con meno di trent’anni, ‘solo’ per il 56% sono donne. Altro dato da non sottovalutare considera l’82% tra i medici over 70, che via via vanno in pensione.  

Più donne in sanità, ma meno ai vertici 

Come accennato, le donne in sanità sono in crescita, ma sono ancora troppo poche le professioniste che ricoprono ruoli ai vertici. Ancora secondo i dati FNOMCeO, sono solo 20 le donne medico che ricoprono la carica di presidente o vicepresidente dei 106 ordini italiani.  

Dei 15 membri del Comitato centrale della Commissione Albo Medici le donne sono solo due, tra i 9 componenti della Commissione Albo Odontoiatri si registra solo una presenza femminile. 

Inoltre, dai dati forniti dalla Federazione nazionale Ordini dei Tecnici sanitari di radiologia medica e delle professioni sanitarie tecniche, della riabilitazione e della prevenzione emerge: sul 65% delle donne iscritte, soltanto in 11 (cioè il 18%) ricoprono il ruolo di presidenti dei 61 Ordini TSRM e PSTRP, percentuale che sale al 42% se si analizzano i numeri relativi ai presidenti delle 19 Commissioni di albo nazionali. 

Riguardo agli infermieri, il 76% degli iscritti all’albo in Italia è donna e la percentuale arriva al 98% se si estrapolano i dati relativi agli infermieri pediatrici, ma le dirigenti sono poco più del 50%. 

A tutto questo, si aggiungono i dati AlmaLaurea che parlano di 7 donne su 10 neolaureati in professioni mediche (9 su 10 in Ostetricia, Infermieristica Pediatrica, Logopedia e Terapia della Neuropsicomotricità dell’Età evolutiva), tuttavia le neolaureate guadagnano in media 1.283 euro netti mensili mentre gli uomini 1.387.100 euro. Ciò significa che i ragazzi percepiscono l’8,1% di soldi in più. 

La parità di genere in Sanità rimane ancora una conquista 

Di certo, non si può dire che la presenza massiccia della componente femminile in Sanità corrisponda a un’equità nel trattamento e nel lavoro. Anzi, possiamo affermare che la parità di genere rimane ancora una conquista, una battaglia che le professioniste devono combattere in prima persona per vedersi riconoscere i loro diritti 

Ma quali possono essere i fattori limitanti?  

Abbiamo spesso riflettuto sul maschilismo ancestrale che abita ancora la mentalità del nostro Paese e ciò che rammarica di più è trovarlo in tutti i campi. Tuttavia in ambito sanitario, non possiamo ignorare che nella selezione del personale, spesso e volentieri, si preferiscono colleghi di sesso maschile, soprattutto nella fascia di età 30-40 anni, perché si crede che si assenteranno meno per mancanza di ipotizzate gravidanze e annessi periodi di maternità; che le sale operatorie rimangono ambienti sempre più prettamente maschili; che le donne, spesso, ricoprono ruoli di reparto e/o ambulatoriali. Inoltre, nel settore chirurgico, le donne continuano ad essere in minoranza per più fattori:  

  • economico: chirurghi sono sempre meno pagati; 
  • di responsabilità: hanno alte responsabilità medico-legali; 
  • qualità della vita: l’impegno e il sacrificio richiesto non sempre sono ripagati a sufficienza. 

Inoltre, viviamo ancora in una società che riconosce la donna come una figura fondamentale all’interno delle mura domestiche, le quali spesso la strappano via alla carriera. Le donne madri e le caregiver sono ad esempio due categorie, tra le meno protette dal nostro ordinamento 

Le difficoltà sono superabili e i diritti devono essere riconosciuti!

Non si può negare, però, che quest’onda rosa fa ben sperare. Se fino adesso, il “sistema” ha dovuto non rendere conto a nessuna di quanto mai preso in considerazione, le nuove leve, le giovani professioniste, le nuove matricole dimostrano quanto sia desueto non mettersi al pari coi diritti e quanto sia innaturale e inconcepibile non battere la via dell’equità.  

Un posto di lavoro è un modo per dare dignità e valore al singolo, a prescindere dal genere.  

Educare i giovani al cambiamento? E perché non indurre il sistema, invece, a credere nelle nuove professioniste? La chiave, forse, può trovarsi qui: la matricola di oggi, la donna medico di domani, sarà proprio lei a scagliarsi contro i pregiudizi di un diritto desueto e scagliarsi contro il sistema, ottenendo l’esercizio di quei diritti che già le appartengono.  

E se famiglia e lavoro non riescono a conciliarsi, bisogna fare appello all’equità che è quell’esercizio difficile in cui si sostanzia il diritto di uguaglianza e in cui consiste il lavoro del nostro Legislatore e la messa in pratica da parte della nostra politica.  

Per festeggiare la donna, insomma, basterebbe smettere di celebrare la Festa della Donna e fare in modo che questa questione diventi appunto “storia” e non tormento e battaglia quotidiana.  

Il motivo è molto semplice: lo sviluppo sostenibile riconosce il ruolo sociale della donna e rientra nei goals 2030 dell’Agenda ONU. E allora: forza studentesse, tocca a voi!

 

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